Domenico Mamone, 49 anni, laurea in Scienza dell’amministrazione con tesi sul diritto aziendale, è il presidente di Fondolavoro.
Il Fondo paritetico interprofessionale per la formazione continua delle imprese, costituito a seguito dell’accordo interconfederale tra l’associazione datoriale Unsic e l’organizzazione sindacale dei lavoratori Ugl, è operativo da dieci anni. Con il presidente Mamone abbiamo parlato del ruolo dei fondi interprofessionali, del loro funzionamento e dello stato di salute della formazione in Italia.
Quali sono i primari obiettivi dell’organizzazione da lei presieduta?
Principalmente accrescere il livello di competitività delle aziende attraverso la formazione del personale e migliorare l’occupabilità dei lavoratori, la cui crescita non è soltanto professionale ma anche personale. Tenendo sempre presente la centralità della formazione e soprattutto le sue repentine evoluzioni collegate a quelle del mercato del lavoro e della società in genere. Si pensi ad esempio all’irruzione del lavoro agile o alla novità delle microqualificazioni.
Nelle critiche al sistema della formazione professionale e continua vengono talvolta inclusi anche i Fondi interprofessionali, tanto che non manca saltuariamente l’intenzione di sottrarre i vostri “tesoretti” da parte dei governi. Davvero, come sostiene qualcuno, l’azione del vostro comparto è “inadeguata”?
Tutt’altro. Pur non nascondendo le inevitabili criticità collegate a quelle complessive del mercato del lavoro, penso al mancato raccordo tra politiche passive e attive, tra sostegno al reddito e formazione, o ai ritardi nell’orientamento o nell’outplacement. Tuttavia il meccanismo formativo collegato ai Fondi è estremamente efficace. Ricordo che l’adesione da parte dell’azienda è totalmente volontaria, gratuita e revocabile. Non a caso il contesto da cui hanno preso vita i Fondi è la strategia europea di Lisbona che ha posto come obiettivo la “società della conoscenza”. Inoltre, anche a fronte dell’innegabile fallimento del binomio “navigator-reddito di cittadinanza”, l’uso delle risorse dei Fondi, congiunta alla contrattazione e alle politiche attive del lavoro, può costituire uno dei perni degli accordi tra governo e Regioni e parti sociali per integrare le risorse disponibili sul piano nazionale con una parte delle risorse europee.
Nel dettaglio come funziona il meccanismo dei Fondi? Come avviene l’erogazione del finanziamento e qual è il ventaglio delle attività formative?
Con l’iscrizione, la quota dello 0,30% della retribuzione dei dipendenti finisce al Fondo che provvede, con specifiche competenze, alla qualificazione del personale e al conseguente accrescimento della competitività aziendale. Con tale sistema si evita quindi l’approssimazione, si professionalizza l’intero processo e l’investimento finisce per non essere un costo, ma un indubbio vantaggio. Anche con utili ricadute sociali. Vanno aggiunti altri due elementi: la natura associativa dei fondi, promossi con accordi delle organizzazioni di rappresentanza delle parti sociali, e la vigilanza del ministero del Lavoro e di altri organi, che equivale a monitoraggio e garanzia. La legge di riferimento, benché sia del 2000 (la numero 388), è stata modificata di recente con l’articolo 48 della legge 289 del 2022.
L’erogazione del finanziamento avviene con il criterio di redistribuzione delle risorse versate dalle aziende aderenti. Siamo noi a stabilire la modalità di erogazione del finanziamento. Esistono strumenti a disposizione delle aziende, come l’avviso territoriale o settoriale che invita alla presentazione di un progetto poi valutato dal Fondo, oppure il conto formazione o individuale attivato dall’impresa presentando proposte formative, fino al voucher formativo individuale. Insomma, anche in questo caso il meccanismo è “elastico ed efficace”.
Il ventaglio delle attività formative è estremamente articolato. Informatica, privacy, sicurezza sul lavoro, ma anche materie più specifiche come la padronanza degli applicativi gestionali, dalla contabilità alle paghe, fino alla fatturazione elettronica o alle certificazioni ISO. La novità sostanziale del 2022 è il Fondo Nuove Competenze. Sì, il bando del Fondo Nuove Competenze ha conferito un ruolo centrale – insieme agli enti privati accreditati che certifichino le competenze in uscita – ai fondi interprofessionali, chiamati a gestire i piani formativi delle aziende aderenti. Le competenze da sviluppare con priorità sono quelle legate alle transizioni richieste dal Pnrr, cioè digitale ed ecologica. Da quest’anno, inoltre, le aziende non potranno provvedere in autonomia al potenziamento delle skill dei propri dipendenti. Per accedere al Fondo Nuove Competenze, i fondi interprofessionali incarnano il canale privilegiato.
Qual è lo “stato di salute” della formazione in Italia?
Confrontato con gli altri Paesi europei, soffre di ritardi che risentono principalmente di problematiche generali e purtroppo ataviche, squilibri sociali, territoriali, generazionali, di scolarizzazione, di qualità del capitale umano e di genere, aggravati dalla pandemia. Ad esempio, lo scarso livello di istruzione rispetto alla media comunitaria è aggravato dal fatto che le persone a bassa scolarità sono quelle meno impegnate in tutti i tipi di percorso formativo. Il tessuto imprenditoriale, costituito per lo più da piccole aziende, è un problema rispetto al fatto che la propensione a realizzare interventi formativi cresce all’aumentare della dimensione aziendale. A ciò si aggiungono il divario territoriale Nord-Sud, l’invecchiamento demografico (il tasso di partecipazione formativa è inversamente proporzionale alla classe di età), i ritardi sul fronte delle nuove tecnologie (l’indagine Indaco-Adulti 2020 ha attestato che ben il 39,7% degli over 54 ha un basso livello di informatizzazione), il deficit e il disallineamento delle competenze di base e le basse qualificazioni della popolazione adulta. E non va dimenticato il mismatch, cioè il disequilibrio tra domanda e offerta di lavoro, con le imprese che cercano centinaia di migliaia di lavoratori e ne trovano circa la metà. Mentre dodici milioni di persone in età da lavoro né lavorano né lo cercano.
Proprio le rilevanti differenze nelle tipologie di fruitori della formazione tendono a far aggravare le disuguaglianze nel nostro mercato del lavoro. A fronte di tutto ciò occorre investire su una formazione adeguata. Pur nell’epoca degli algoritmi, bisogna puntare sulle persone, anche perché la realtà aziendale è in continua evoluzione, la mobilità sociale sarà la regola nel futuro. Quindi, il tessuto industriale cambia, ma non l’apporto del lavoratore. Aggiungo un’altra considerazione sul deficit normativo: manca una legge specificamente dedicata a regolamentare in maniera unitaria la formazione continua. Il riferimento più comune è ancora alle linee guida per la formazione di dodici anni fa. C’è tuttavia una luce in fondo al tunnel, messa in evidenza nell’ultimo Rapporto dell’Inapp del novembre scorso. Dopo anni di stagnazione, nel 2021 i livelli di partecipazione formativa degli italiani sono finalmente cresciuti.
In tale quadro s’inserisce il Piano nazionale di ripresa e resilienza…
Il Pnrr giustamente pone al centro le politiche attive del lavoro, l’orientamento e la formazione permanente. E il ruolo delle parti sociali è funzionale alla costruzione di un sistema nel quale la formazione continua del personale riveste un ruolo sostanziale. Il Pnrr, con le ingenti risorse messe a disposizione, sta promuovendo un’ambiziosa agenda di riforme. Mettendo al centro proprio l’investimento nella formazione e nello sviluppo delle competenze del personale con standard qualitativi in continua evoluzione.
A cura di Giampiero Castellotti